via Ecce Homo

Ecce Homo

Di non essere davanti ad una persona qualsiasi in un mondo globalizzato lo si poteva capire fin dal primo sguardo nella sua bottega di calzolaio a Ragusa. Non un arnese moderno, una macchina elettrica, addirittura neppure un tubo di colla, qualcosa prodotto da qualche multinazionale della chimica. Nella stanza a piano terra di via Ecce Homo, quasi buia, c’è soltanto un lume e una moltitudine di pacchi contenenti centinaia di scarpe. Chissà, forse del lavoro arretrato, forse calzature dimenticate nel corso dei settanta anni di attività di “scarparo” condotta da Don Giovannino. L’ho conosciuto con il suo sempiterno grembiule grigio e la sua coppola marrone, chino sul suo lavoro, una domenica: sì perché Don Giovannino, ultra-ottantenne, lavora trecentosessantacinque giorni all’anno. In quella bottega vive e ci è nato. La stanza dove lui ora svolge la sua attività fungeva in passato sia da cucina sia da camera da letto per i suoi genitori e per la sua unica sorella. Invece, in una sorta di soppalco al piano superiore dormivano i nove fratelli maschi, tutti sdraiati sulla paglia, con due coperte. Le circostanze richiedevano organizzazione, razionalizzazione delle risorse: i fratelli più corti da una parte, sotto una coperta, quelli più lunghi dall’altra, sotto l’altra coperta.

Ma facciamo un passo indietro. Don Giovannino, nato nel 1927, in quella casa appunto, è il nono dei dieci figli di Giorgio Scrofani, picconiere dall’età di cinque anni. Spaccava le pietre, per fare le strade e guadagnava una giacchetta, un pane, qualche uova, quello che capitava. Ma mai denaro fino a quando, adolescente, Giorgio Scrofani si impunta: “da oggi, voglio 50 lire, fino a quando avrò abbastanza soldi per il ‘ticketto’ e con quello prenderò la nave per andare in America a diventare ricco”. Don Giovannino mostra orgoglioso la fotografia del padre, un foto ritratto fatto negli Stati Uniti, con la camicia dal colletto tondo e rigido, come si usava lì, e il ricciolo di capelli in fronte, da vero siculo. La postura fiera, l’abito elegante, un vero “gentleman” con tanto di fiore all’occhiello. La fotografia fa bella mostra di sé sulla credenza in legno dipinto di grigio nella bottega di Don Giovannino. Di sera, quando è acceso il lume, un fascio di luce pone quella immagine incorniciata in ancor maggiore evidenza. Ci sono altre fotografie appese con un chiodo o una puntina nella calzoleria, quelle di tutti i fratelli e perfino dei nipoti già morti, ma soltanto l’immagine del padre è ben evidenziata dalla cornice dorata.

Era la fine del XIX secolo. Il ragusano Giorgio Scrofani, partito da Napoli, dopo aver viaggiato trenta giorni a bordo della “Cristoforo Colombo”, arrivato da solo a New York, a diciassette anni, aveva incontrato al porto l’anziana Maddalena, di origini siciliane. Da lei aveva trovato alloggio e, tramite gli altri siciliani che avevano affittato una camera da “Madeleine”, aveva trovato un lavoro in una fabbrica di cioccolato. Ci rimase quindici anni. Tempi di “sgobbate” quelli di Giorgio Scrofani negli Stati Uniti: pochissimi i soldi spesi per vivere in America, una sciocchezza, tutto il resto era spedito in Italia per aiutare la madre e accumulato in vista del futuro ritorno. Infatti, lui una americana non la voleva sposare. Donne di facili costumi, quelle. A trentadue anni, la seconda decisione fatidica: tornare in Italia per sposarsi. A quell’epoca era presto fatto, no, non tornare in Italia – ci voleva più di un mese – ma sposarsi: Giorgio Scrofani vide per la strada nella sua città natale, Ragusa, una bambina di tredici anni, gli piacque, andò dal padre della bambina e con il di lui consenso, la sposò. Così si usava allora. Era il 1916. Voleva tornarci in America, Giorgio Scrofani, ma la moglie si rifiutò risolutamente: temeva che la nave affondasse. Perse così, Santuzza, la sua prima occasione di vedere il mare. Non ne ebbe un’altra, fino all’età di 68 anni, quando, lei che viveva in una città a venti chilometri dalla costa, fu portata a Marina di Ragusa da suo figlio. “E’ questo il mare?” chiese, lei che non usciva mai dalle due stanzette sovrapposte in via Ecce Homo, non perché qualcuno glielo impedisse, ma prima perché sempre incinta, poi con i dieci figli da crescere ed il lavoro a cottimo per arrotondare le entrate del marito e poi, per finire, perché ci aveva preso l’abitudine a vivere così, Santuzza.

Ma il mare, in casa Scrofani, era un destino. Abbiamo detto della traversata sulla “Cristoforo Colombo” alla volta di New York di Giorgio Scrofani, seguito poi da suo fratello, che lì è rimasto. C’erano però dei precedenti, in famiglia. E che precedenti. Si tratta nientemeno che dell’ammiraglio Salvatore Scrofani, nato nel 1835, prozio di Giorgio. Medico, ufficiale di marina, gentiluomo e “femminaro”1 al punto di non sposarsi mai. Partito da Ragusa un secolo e mezzo fa, non c’è più tornato. Arruolatosi in Marina aveva fatto una brillantissima carriera militare. Per circa vent’anni si imbarcò su diverse navi in qualità di medico fino ad essere insignito del grado di dottore capo di prima classe. Iniziatore di non meglio definiti futuristici interventi chirurgici alla testa, aveva ottenuto una tale celebrità da essere chiamato ad Istanbul, nientemeno che dal Sultano. L’Ammiraglio Salvatore Scrofani, dopo anni passati a terra a Venezia, si trovò ancora una volta a bordo di una nave, alla volta della Turchia, dove intervenne sul cervello malato del Sultano Abdulaziz. Intervento riuscitissimo: taglio della calotta cranica, eseguito nel 1865. Raccontano le cronache cittadine che il Sultano fu molto riconoscente all’illustre chirurgo italiano cui doveva la vita e, come in una fiaba delle Mille e una notte, volle ripagare l’antenato di Don Giovannino con oro, diamanti ed ogni tipo di gemme preziose. Ma Salvatore Scrofani fu incrollabile, a nulla valsero le insistenze della Corte del Sultano: non accettò nulla e si accomiatò dicendo “in Italia, si paga con l’onore”.

Dimenticato per decine di anni dopo la sua morte, l’Ammiraglio tornò alla ribalta nella sua città natale per un improvviso colpo del destino: un giorno un impiegato del Comune di Ragusa con la passione per l’antiquariato, passeggiando in un mercatino, aveva trovato una serie di incartamenti, mappe, diplomi, onorificenze, libri e manoscritti di ricerche sul cervello, il tutto legato da un elastico. Slegate le carte, aveva scoperto che tutto il malloppo riguardava appunto tal Ammiraglio Scrofani, ragusano. Comprato il malloppo, l’impiegato, in Comune, si rese conto che c’erano nel bilancio annuale fondi per commemorazioni che non si sapeva come usare. Due più due fece quattro. I resti mortali dell’Ammiraglio furono identificati nel Cimitero di Venezia, trasportati a Ragusa e, con tanto di banda e Sindaco benedicente, Salvatore Scrofani fece ritorno nella città natale, non è dato sapere quanto di buon grado, dopo un secolo dalla sua morte.

Avessero chiesto a Don Giovannino, lo avessero interpellato: lui una fotografia dell’Ammiraglio l’aveva sempre avuta in un cassetto e si ricordava tutta la vicenda, soprattutto la storia del cervello del Sultano, raccontatagli dal padre. In effetti, la bottega di Don Giovannino è al tempo stesso un archivio e anche una sorta di reliquiario. Abbiamo detto degli arnesi, della storia familiare. Ma, oltre che una specie di museo della calzatura impolverata, la bottega di Don Giovannino assolve a ben due altre funzioni. Innanzitutto, è un luogo della memoria, quasi un tempietto taoista. Lì si trova tutta la storia della famiglia e poi avanti, e avanti ancora, nei racconti di Don Giovannino, si arriva oltre, verso la vita della città.

La seconda funzione della bottega di Don Giovannino è quella di luogo di incontro. Lì si ritrovano quotidianamente il Ragioniere, il Signor Fazio, il Signor Michele. Ma anche molti altri: giovani ed anziani, uomini e donne, tutti sanno che dalle prime ore del mattino alle dieci di sera, sempre troveranno Don Giovannino pronto a lucidare gli stivali, sistemare la fibietta di un sandalo da mettere in discoteca e, soprattutto, a raccontare una della sue storie di un’umanità più ricca. E altre storie siciliane. Talora fuori dal tempo. Come quella della bella Signora Carmela che a tredici anni, nel 1968, anno della contestazione giovanile, dell’amore libero e della fantasia al potere nelle Università di Parigi e di Milano, era stata costretta a sposarsi dalla madre. Il marito era un diciottenne e lei, una vera bambina, “una deficiente, una che giocava con le bambole, che era stata soltanto davanti all’uscio di casa”, come spiega lei stessa. La faccenda era la seguente: la madre, rimasta vedova, si era sposata con un bellimbusto che non voleva figlie femmine da maritare per casa e per questo decise di consegnare Carmela e qualche soldo a un giovanotto affinché se la portasse via. Era la “fuitina”. La bambina tornò incinta. I due furono costretti a convolare a nozze riparatrici, cosa che significa senza che la madre ed il patrigno dovessero sborsare una lira per la dote. Sì, era davvero il 1968.

Abbiamo abbandonato Giorgio Scrofani, novello sposo a Ragusa dove riprende il suo lavoro di picconiere. Gli anni passano, i figli prima aumentano di numero, poi crescono, la fame è molta. E’ infatti la seconda guerra mondiale. Ma un giorno, Giorgio, in via Roma, ode una lingua che gli ricorda qualcosa, anzi molto: i suoi anni a New York. Sente parlare inglese: erano arrivati gli Americani. Era il 1945. Fu allora che Giorgio incontrò George, della Aviazione americana, affranto perché incapace di trovare qualcuno con cui si potesse comunicare. Fu dunque entusiasta quando incontrò Giorgio Scrofani che l’inglese lo parlava, ma sgrammaticato. Perché Giorgio era intelligente, ma ” ‘nalfabeto”. Ebbene, la storia di Don Giovannino è troppo bella per non essere ricca di colpi di scena: il fato volle che George, “u ‘Mericano”, fosse il nipote di Madeleine, prima affittacamere di Giorgio a New York. Baci ed abbracci. E traduzioni. E viaggi in aereo a Casablanca, dove George, pilota, si recava dall’aeroporto militare di Comiso, dal quale gli americani sono stati gli ultimi a riuscire ad organizzare un decollo2. Partiti loro, l’aeroporto è caduto in disuso. Ora ristrutturato, trasformato in aeroscalo civile, pronto per ricevere e far partire aerei, viene usato da anni come luogo fisico sul quale i politici locali riflettono, pensano, pianificano e di voli ne fanno solo di pindarici.

Invece, Giorgio Scrofani dall’aeroporto di Comiso è partito e tornato, verso e da Casablanca. E non certo a mani vuote. “Maria3, Maria, che ben di Dio”, esclama con gli occhi estasiati, la mani spalancate, scattando in piedi, Don Giovannino: “zucchero, caffè, cacao, una pipa, sigarette, scatolette di carne! Maria…cioccolatini, dolci e tanto bene che non bastano le parole…i quilli qu’a vuliano a Mussolini, fame, ma fame ci portò, Maria quando ci penso!”.

C’era poco da scherzare. Don Giovannino si vergognava, anzi. Per esempio davanti alla bella sartina cui aveva portato i pantaloni da rattoppare: “Ma di che colore sono questi calzoni?”, domandava la sartina che non sapeva quale colore scegliere per la pezza da aggiungere alle decine già cucite lì sopra, di tutti i colori. Don Giovannino arrossì. “Quanto guadagna tuo padre?” “Quattro lire al giorno”. “E come fa a campare i figli?”. Rispondendosi da sola, la sartina, il giorno dopo, insieme ai pantaloni rattoppati, consegnò al nostro un bel pane fatto da lei ed una testa di caciocavallo.

Un’esperienza da emigrato l’aveva fatta anche Don Giovannino. Sono stati solo cinque mesi e la ragione della partenza riguarda proprio la sorella. Se poi la permanenza all’estero del nostro fu breve, lo si deve alle condizioni climatiche del paese ospitante. Non è questione di fare i difficili. E’ questione di sopravvivenza. Sentite il perché. Alla morte del padre, Don Giovannino si era impegnato a fare sposare la sorella. Ciò significò per lui pagare mobili, e casa, e cerimonia, e pranzo nuziale. Tutto fu fatto con abbondanza di mezzi. Però, alla fine della festa, Don Giovannino si trovò pieno di debiti. Non sarebbe bastata l’eternità per pagarli tutti col suo lavoro di calzolaio. Per questo decise di partire per la Germania, per Munster precisamente, dove già altri ragusani avevano trovato lavoro in una fabbrica di cioccolato. Il problema era che i siciliani lì erano ormai molti e che, se di lavoro ce n’era sempre, mancavano gli alloggi. Don Giovannino si rivolse ad un ragusano che gli procurò uno scatolone, lo sistemò in un cortile sotto un albero e vi installò il nostro. Era estate. Il nostro mise tutte le sue masserizie nello scatolone, ivi compreso qualcosa di morbido sul quale coricarsi, e lì visse fino all’inverno. I problemi giunsero con l’arrivo dell’inverno nordico. Rimanere lì significava morire di freddo, i soldi per pagare i debiti erano stati guadagnati e, soprattutto, Don Giovannino aveva sentito dire che a Ragusa, al pastificio Curiale, cercavano lavoratori. Partì subito.

La storia di Don Giovannino continua ad incrociare partenze e migrazioni. Non soltanto il padre, lo zio Giuseppe, il prozio Ammiraglio Salvatore, ma molti altri. Perfino la fidanzata. Infatti, Don Giovannino che, come l’illustre antenato, ma per diverso motivo, non si è mai sposato, è stato una volta fidanzato. Diciamolo sinceramente: uno è stato il fidanzamento, ma i tentativi sono stati ben dieci, contati sulle dita delle mani. Dieci volte ha fermato una ragazza per strada. Ma è sempre andata male. Sempre respinto. E’ stato il destino che l’ha costretto a questa mal sopportata condizione di “schietto”4. Ogni tanto se la prende con le ragusane: tutte “stroleghe”5, tutte interessate al denaro. Soltanto due ragazze non avevano rifiutato di rivolgergli la parola.

La seconda era Mariuzza. L’aveva vista in via Mariannina Schininà ma lei gli aveva confessato di essere già fidanzata. Mariuzza rimase fedele al fidanzato anche quando questi partì per gli Stati Uniti. Ricevette da lì una lettera che la informava del matrimonio del medesimo con una venezuelana conosciuta là. In un certo senso continuò a rimanergli fedele, perché disgustata a vita dal genere maschile, seguitò a rifiutare la proposta di Don Giovannino, si fece suora ed ancora oggi vive di preghiera a Ragusa.

La prima ragazza a non rifiutare Don Giovannino fu invece Ciccina. L’ottava fermata per la strada, ma la numero uno, l’unica che lui ha veramente amato. Ma, anche qui, facciamo un passo indietro. Pare che Ciccina fosse estremamente bella. Anche Don Giovannino non era niente male a giudicare dalla fotografia che estrae dal cassetto. Un bel giovanotto, tutto impomatato con la brillantina, tutto elegante. Come suole, Don Giovannino ferma Ciccina per la strada, lei risponde, scoppia la passione, vogliono sposarsi. Si incontrano ai balli, lei scarta i cioccolatini e glieli imbocca. Lui se ne commuove ancora, al ricordo. La madre di Ciccina, anche lei emigrata negli Stati Uniti col marito, tornata in patria con un gruzzoletto che le ha permesso di comprare un terreno e diventare massara, si oppone fieramente al matrimonio con lo scarparo. Per la bella figlia vuole un “sistemato”, qualcuno con uno stipendio, insomma, non un artigiano sui cui proventi non si può contare. Don Giovannino, che alla ragazza voleva bene “col cuore, non con le parole”, con l’aiuto dello zio, prete a Chiaramonte, escogita un piano: nascondere Ciccina dalle “ntuppatiedde”6 per il tempo necessario a preparare i documenti, farsi sposare dallo zio “parrino”7, fuggire in America. A questo punto la palla era nel campo di Ciccina, la quale prende segreto appuntamento col fidanzato nella chiesa di San Salvatore e lì gli comunica di non poter “fare questo a sua madre”.

A questo punto del racconto Don Giovannino si alza in piedi. La memoria del momento è solenne. E’ stato il grande dolore della sua vita. Per scelta della madre, Ciccina sposò un tipastro, neppure lui convinto della cosa e con lui partì per New York. Il tipastro, tale Nunzio, trovò lavoro in una fabbrica di sapone negli Stati Uniti e, “sistemato”, chiamò a raggiungerlo in America una donna di cui si era innamorato tempo addietro in Sicilia. Le procurò un’occupazione nella fabbrica di sapone dove lavorava anche lui ed i due divennero colleghi ed amanti.

Si incontravano dopo il lavoro, nella stanza che Nunzio aveva affittato per la sua amante. Alle undici di notte, Nunzio tornava a casa dicendo alla moglie di aver fatto gli straordinari. Data l’ingenuità di Ciccina, la menzogna non ebbe le gambe corte, ma – ancorché in ritardo – la verità venne a galla. Infatti, messa sul chi vive da un amico del marito, Ciccina – onde arrivare alla verità – un giorno chiama un taxi, si fa portare alla fabbrica dove lavora il marito, lo vede uscire con una donna, lo segue, i due arrivano ad una casa e lì spariscono. Ciccina si piazza sotto la casa. E aspetta. La vede la polizia che teme che stia facendo da palo a dei ladri e si ferma per tenerla d’occhio. Passano le ore, Ciccina è sempre ferma sotto la stanza dell’amante del marito, tremante per il freddo e per la paura di aver scoperto la verità, la polizia sempre in agguato ad attendere l’esito della vicenda, a distanza. Finalmente, alle undici, esce Nunzio che, vista la moglie e sentendosi scoperto, non sapendo proprio cosa dire ad un essere indifeso, totalmente irreprensibile, a una come Ciccina cui non aveva proprio niente da rimproverare, nessuna scusa da addurre per il suo comportamento, da vera bestia quale è, aggredisce la moglie. L’avrebbe mandata in ospedale per “i curpi”8 se non fosse stato per l’intervento della polizia in difesa della donna. Ma da quel momento le carte erano state scoperte. Ormai non c’era niente da nascondere. La moglie aveva voluto sapere. Era peggio per lei. La relazione con l’amante era ormai di fatto ufficiale. Perché dunque, si chiese Nunzio, da vera bestia quale era, continuare a pagare la pigione per la stanza della ragazza quando questa serviva solo a coprire un segreto? Dal momento che il segreto non era più tale, per coprire l’amante, per darle un tetto, bastava la sua casa. Fu così che Nunzio, da bestia quale era, decise di fare traslocare l’amante in casa, sì, proprio così, sotto lo stesso tetto dove viveva Ciccina. Iniziò così una convivenza a tre. E siano chiari i termini di questa. C’era un solo letto. Ci si coricavano in tre: Nunzio e la sua amante, ma anche Ciccina.

Lei non si ribellava mai. Lì rimase. Lì si ammalò. Un tumore. Il corpo afflitto e l’anima trafitta versavano sangue l’uno nell’altra. Aveva ventiquattro anni e sentiva la vita allontanarsi. Decise di partire per l’Italia per vedere sua madre e le sue sorelle. Fu il caso che durante il breve soggiorno a Ragusa, in via Roma, fece incontrare lei e Don Giovannino. Ciccina era dimagrita, pallidissima. Ma sempre bellissima. Guardò l’ex-fidanzato, non disse nulla a lui, parlò invece alla madre: “lui, invece, mi voleva bene”. Poi, più nulla, si seppe soltanto che era tornata in America.

Passarono due mesi da quel muto incontro. Camminando per il centro, Don Giovannino vide la sorella di Ciccina.

Era vestita a lutto.

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